LE SS.UU. SULL’USURA MORATORIA CHIUDONO IL CERCHIO (ED I PROCESSI)
Già da un po’ si sentiva nell’aria che era oramai giunto il tempo di fare chiarezza sulla disciplina, civilistica, dell’usura ed in particolare sull’usura moratoria, l’ultima questione, fin’ora, ancora irrisolta. Non che non ci fossero stati dei tentativi, negli ultimi anni, ma la materia appariva ancora disorganica, perché tanti erano, ancora, i quesiti senza risposta univoca. Come si deve verificare se c’è usura moratoria? Si deve usare il tasso soglia individuato per gli interessi corrispettivi o si deve seguire il “metodo del margine” consigliato dalla Banca d’Italia? Ed infine, qual è la sanzione per il contratto che contiene la pattuizione di un tasso di mora usurario?
La questione andava, perciò, definita, perché troppo frastagliate e diverse erano le posizioni della giurisprudenza di merito.
L’intervento delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione era, quindi, invocato ed atteso da tutti; operatori bancari, professionisti, mutuatari debitori e non.
Ebbene le SS.UU. si sono pronunciate il 18 settembre 2020 con la sentenza 19597.
La pronunzia inizia bene e lascia ben sperare quando esordisce affermando che “Il criterio generale è costituito dalla ratio del divieto di usura e delle penalità che con esso si siano intese perseguire.”
Continua, a pag. 15, chiarendo che “il Collegio ha ritenuto che il concetto di interesse usurario e la relativa disciplina repressiva non possano dirsi estranei all’interesse moratorio, affinchè il debitore abbia più compiuta tutela” e che “La severità del legislatore nel trattamento degli interessi usurari è palesata dalla disciplina ad essi riservata nell’art. 1815, comma 2 cod. civ.”.
Se a questo aggiungiamo l’affermazione che “se i decreti (ministeriali) non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato”, sembrava, veramente, che si fosse giunti alla decisione finale.
Ma l’euforia, purtroppo, non è durata a lungo, perché immediatamente dopo la S. C. sancisce che “si applica l’art. 1815, comma 2, cod, civ., ma in una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro”, perché non si può “premiare il debitore inadempiente, rispetto a colui che adempia ai suoi obblighi con puntualità … Una volta che il giudice del merito abbia riscontrato positivamente l’usurarietà degli interessi moratori, il patto relativo è inefficace, In tale evenienza si applica la regola generale del risarcimento per il creditore, di cui all’art. 1224 cod. civ. commisurato alla misura pattuita per gli interessi corrispettivi, come prevede la disposizione”.
Le SS.UU., quindi, di fatto hanno abrogato l’art. 1815 2° comma cod. civ., che non opererà più allorquando ci troveremo di fronte all’usurarietà dei soli interessi di mora. Ma la soluzione che si appoggia all’art. 1224 c.c. appare fiorviante per almeno due ragioni. La prima è che il dettato dell’art. 1224 cod. civ. tende a disciplinare vicende naturali di un negozio giuridico sano, mentre il 2° comma dell’art. 1815 oltre a disciplinare una vicenda che consegue ad un fatto illecito (usura), dice anche qual è la sanzione che consegue a quel fatto illecito: la gratuità del mutuo.
La seconda è che una volta eliminata la gratuità del mutuo con interessi usurari si leva il solo elemento persuasivo capace di scoraggiare la condotta illecita.
Ma ritengo si possano cogliere ben altre incongruenze.
La giustificazione proposta dalle SS.UU. forse giustifica un po’ troppo e dimostra che è stata prestata poca attenzione alla vigente disciplina dell’usura, oppure che si è perseguito altro scopo rispetto a quello nomofilattico. Non si può dire che l’applicazione della sanzione prevista dal 2 comma dell’art. 1815 c.c. sarebbe un premio per il debitore inadempiente, perché ai sensi dell’art. 644 c.p. basta la promessa di pagare interessi usurari perché vi sia il reato di usura. La gratuità del mutuo non è un premio per il debitore, ma la sanzione per il creditore che ha preteso interessi illegittimi.
Ci sono, dunque, troppe incongruenze, in questa pronuncia, che fanno pensare che la parola fine non sia ancora stata scritta e che sia lecito aspettarsi un prossimo intervento, magari sull’art. 644 c.p.!
C’è, però, un’altra possibile lettura.
Nonostante a pag. 10 della sentenza si legga che “le scelte di politica del diritto sono riservate al legislatore, al giudice competendo solo di interpretare la norma nei limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato” sembra che, come si dice comunemente, si siano volute “mettere le mani avanti” come se il vero scopo perseguito fosse semplicemente quello di porre fine al contenzioso in materia e di scoraggiare il cittadino dall’intraprendere o continuare giudizi, con la conseguente riduzione della tutela (che secondo la disciplina repressiva avrebbe dovuto essere ampia) del debitore.
Avv. Emilio Possidente – partner